In tempus antigu biviat una marchesa arrica meda meda e teniat bènis, bestiàmini e dònnia ratza de cosa e dònni’annu fadiat arragorta manna de lori.
Un’annu fiat un’annada bella bella e sa marchesa est andada a s’arxola innui fiat su trigu ispallau e sa palla fata a arega e innia s’est sètzia in d-unu scannu mannu po castiai is tzeracus chi depiant mesurai su trigu e chi dhu poniant in sacarias e cun is carrus de is boes nchi dhu lianta a domu de sa marchesa. E insaras una pariga de pòburus de is bidhas de acanta funt andaus a s’arxola de sa marchesa po dhi domandai unu coghingedhu de trigu. Sa marchesa candu dhus at bius s’est arrannegada e nchi dhus at loraus cun mala manera, nendi ca n’aiat fatu pagu e candu Deus ndi dh’iat a giai meda gei nanca nd’iat a fai de limùsinas. E insara, coment’e una spetzi’e miràculu, sa marchesa s’est furriada in d-una pedra manna e su trigu e sa palla in d-unu montixedhu de terra chi s’agatant ancora. Su de su trigu est de su sartu de Cabras, su de sa palla est de su sartu de Arriora e de Santer*.
* Arriora e Santeru, in dialetto sardo, stanno ad indicare rispettivamente i comuni di Riola Sardo e San Vero Milis (OR).
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C’era una volta, tanto tempo fa, una marchesa ricchissima, che possedeva terre, bestiame, grandi campi coltivati a frumento, orti di pere, di mele, di angurie e di susine, e vigne sconfinate e ogni altro bendidio.
In quell’anno, quello di cui vi raccontiamo, le terre della marchesa diedero così tanti frutti che i contadini non bastavano a raccoglierli, i servi non bastavano ad ammassarli, i magazzini non bastavano a contenerli e le pance della marchesa e dei suoi figli non bastavano a digerirli.
Era ormai la fine del raccolto. La marchesa stava sull’aia a controllare la mietitura del grano: ogni chicco era grande come un limone!
Da una parte c’era ormai un mucchio di grano spagliato, alto come unamontagna; dall’altra un covone di paglia che superava di gran lunga l’altezza delle colline vicine.
La marchesa stava seduta su una seggiola, mentre i servi correvano da una parte all’altra sudati e affaticati. Misuravano il grano, lo riponevano nei sacchi e lo caricavano sui carri, trainati da buoi ormai stanchissimi per il troppo lavoro. Servi e buoi, da giorni e giorni, correvano avanti e indietro tra l’aia e il palazzo.
Quel raccolto eccezionale non passò inosservato. La voce si sparse per campagne e città. Alcuni poveri giunsero dai paesi vicini.
Erano di quei poveri che non avevano campi da coltivare a grano, e neanche avevano, a dire il vero, pane da mangiare tutti i giorni. Non avevano né casa né terra.
Andarono dalla marchesa, e chiesero un pugno di grano a testa. Un pugno di grano e nient’altro.
Ma la ricca signora aveva più gioielli che buon cuore.
Quando li vide arrivare, per prima cosa pensò a come toglierseli di torno senza rinunciare a un solo starello di grano. E quindi rispose:
- Benvenuti, benvenuti. Siete sfortunati quest’anno: è andato male il raccolto! La mia terra è stata avara. L’abbiamo tanto lavorata e ci ha male ricambiato. Tornate un’altr’anno. Se Dio mi dartà un raccolto ricco ce ne sarà anche per voi. M il grano di quest’anno basta giusto per me.
Non aveva ancora finito di parlare che, come per incanto, si trasformò in pietra.
Il grano e la paglia, che non aveva voluto donare, si trasformarono in colline di buona terra fertile.
Quella stessa terra, ch’era nuova nuova, appena nata, e che perciò non apparteneva a nessun marchese o vicerè, fu trasformata in orti, non per magia, ma grazie al duro lavoro delle braccia di quei poveri.
Ne trassero pane e anche companatico.
Mangiarono, bevvero, fecero grandi feste e non ci invitarono.
La marchesa pietrificata sta ancora lì, e chiunque la può vedere, seduta sulla sedia, con una smorfia avara e ingorda sul volto.
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